Il Taron

Il Taron è il dialetto di Osco. Come tutte le lingue è in evoluzione, ciò significa che con il trascorrere del tempo subisce delle modifiche o delle influenze da altre lingue (quelle che in gergo vengono chiamate contaminazioni). In effetti, il Taron degli emigranti è notoriamente più “pulito” di coloro che restano, poiché meno soggetto a cambiamenti linguistici. Ad esempio:

  • jöbia diventa gioedì (dall’italiano) = giovedì

  • prüm diventa prim (dall’italiano/dal dialetto ticinese) = primo

  • vam diventa nem (dal dialetto ticinese) = andiamo

 

Come accade per la maggior parte dei dialetti, per definizione legati al mondo rurale e contadino, parecchi termini sono ormai caduti in disuso, principalmente perché sono oggetti o azioni che non vengono più utilizzati nell’agricoltura contemporanea. Ad esempio:

 

  • bignéira = spannarola: cucchiaione di legno largo e piatto per togliere la panna dal latte nelle conche

  • baurè = abbeverare, dar da bere: si riferisce al fatto che un tempo nelle stalle non era disponibile l’acqua e gli animali venivano quindi condotti tutti i giorni alla fontana a bere

  • dartüi = grande imbuto di legno, un tempo munito di stoppia appoggiato su un trespolo e utilizzato per filtrare il latte; senza filtro poteva essere usato come megafono per richiamare gente e bestie

 

La lingua dipende anche da elementi geo-politici e strutturali. I dialetti di Osco e Vigera, paesi vicini che avevano parecchi interscambi (Vigera non aveva il cimitero, la scuola), sono molto simili. A Freggio invece, geograficamente più discosto (fino al 1940 non esisteva il collegamento stradale) e meno dipendente da Osco, il Taron si sviluppa differentemente. Lo stesso principio vale per i paesi vicini (come Calpiogna, Molare, Rodi), in cui si utilizzano voci somiglianti ma si notano queste differenze fonetiche:

 

  • vacòi-vacöi = pigne

  • chèuna-cauna = cantina

  • racoltè-racoutè = riunire il bestiame

 

Esistono inoltre dei termini che hanno più di una variante nella pronuncia, però entrambe sono accettate come corrette, per esempio:

 

  • campanil-campanin = campanile

  • salmèna-sadmèna = settimana

  • dascprési-discpresi = dispetto

È possibile comandare:

Valle Leventina, seconda parte: Osco, Mairengo, Calpiogna, Campello, Rossura, Faido, Chiggiogna, Calonico, Chironico, Anzonico, Cavagnago, Sobrio, Giornico, Bodio, Personico, Pollegio, a cura di Mario Vicari, Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2009, libro (309 p.) + CD audio

https://www4.ti.ch/decs/dcsu/cde/pubblicazioni/documenti-orali-della-svizzera-italiana

Questo volume contiene alcune tracce orali con interviste ad Oschesi da parte di Mario Vicari.

Traduzione

Epistola di Osco. La capra è andata nel bosco e si è persa.

È andato su Pedro di legno con la gamba di legno col coltello di legno e non l’ha presa.

È andato su Pedro di vetro con la gamba di vetro col coltello di vetro e non l’ha presa.

È andato su Pedro di ferro con la gamba di ferro col coltello di ferro e non l’ha presa.

È andato su il lupo l’ha presa per la coda e l’ha fatta gridare bè bè bè.

Il lupo allora le ha detto: vieni con me su in montagna, ti do tanta erba fina.

La capra ha risposto: non vengo sulla cima perché tu sei ingordo di carne caprina.

Il lupo ha detto: ti mangerò lo stesso. Mi metti in una brutta situazione. Lasciami fare testamento.

Lascio gli occhi agli orbi, le orecchie ai sordi, la lingua ai muti, le gambe agli zoppi, la polpa ai macellai, la pelle ai conciatori, il codino a te e le corna nel *** a chi sta qui ad ascoltare.

Traduzione

Nel milleottocentosessantasei i nostri vecchi han costruito una cappella sul sentiero per Faido.

Han portato tutto in spalla, sassi sabbia e legna, pensare che gran fatica a quei tempi.

Han lavorato con buona volontà, senza pretese, per la comunità.

Han fatto un muro di sostegno, che tiene ancora dopo cent’anni.

Due pilastri reggono il tetto, lavorano ancora con ingegno poveri vecchi.

Han lavorato proprio sul serio, per proteggere i passanti dalle intemperie.

Da allora la cappella a quanta gente ha fatto da ombrello.

Ci hanno messo dentro la Madonna col Bambino, che proteggeva il loro cammino.

Dalla cappella e sul sentiero quanta gente è passata.

È passato il gregge di pecore che allora erano bianche e nere.

Dietro c’era il pastore e forse anche l’aiuto pastore.

Passavano per andare al mercato le capre, le pecore e gli agnelli.

Tornavano su la sera con pochi soldi come compenso.

Son passati sposi che si tenevano la mano fiduciosi del loro futuro.

Andavano a comprare i confetti da distribuire in paese.

Son passati giovani tristi che andavano lontano, che han dovuto lasciare i propri cari.

Son passati soldati che andavano alla guerra con la malinconia nel cuore.

Ma bisognava servire la Confederazione.

Ci è passato su e giù il postino, che portava le novità del vicinato.

Han portato giù e su tanta roba, e tutta sulla schiena.

Han portato su quintali di castagne, che erano per loro un grande sostegno.

Quando arrivavano alla cappella ed avevano fatto tanta fatica, recitavano un’Ave Maria.

I nostri vecchi che han costruito la cappella da Scima meritano di essere ricordati

e di avere tutta la nostra stima.

Traduzione

Siediti un momento e tira il fiato, mentre sto qui a battere la falce. – Solo il tempo di fumare una pipa. – Che caldo fa! Con quel sole che abbiamo avuto, i prati patiscono, è troppo asciutto. Sai che c’è stato anche il fuoco nel bosco? – Altro ché! Le fiamme si vedevano fino giù al piano! Ormai è da cinque settimane che non piove più. Se ci fosse almeno una nuvola in cielo! – E il tuo ragazzo, l’Enrico, è andato a curare le pecore? – Oggi è su con le capre. È una vita dura quella del capraio. Si mangia male, si patisce la sete e vi è sempre il pericolo di rotolar giù da quelle coste erte. – L’ho fatta anch’io da giovane quella vita, ma oggi non vorrei più farla. – Due mesi fa a quello stupido di Stefano gli ho affidato i capretti e me ne ha riportato uno con una gamba rotta. Non valgono più niente questi ragazzi; noi sì che eravamo capaci di far qualche cosa. – Hai ragione! Intanto dovrei mettermi a segare questo mucchio di legna. Con la malattia dei castagni è meglio abbatterli tutti adesso. Oggi però il legno non lo vuole più nessuno. Si può già essere contenti se si riesce a vendere un po’ di abete o di rovere. No, è proprio vero che oggigiorno il lavoro del contadino non è più stimato come prima. – cosa vuoi farci? Il modo è fatto così. Intanto ho finito la mia pipata. Arrivederci Carlino, e dì alla tua Nina di badare un po’ ai vostri nipotini. Ieri quei diavoli facevano correre le nostre galline! – Non prendertela. Sono cose da ragazzi, va’. Ciao Tonino.

L’Ültima pagina

… e ‘mo ‘n bot in pasé dodas mis,

di vout u pèr che ‘l temp u sparis!

L’era nanz’er quand che i am piantò gnö,

e l’é sgià ora da truvas tücc i chiö,

 

redator du Baiaff, cöch e bagütt,

par fè un grèi d’alegria, e vardè che tütt

u sia in ordan par un bon Carnavè

cun sgent in piazza pront a ghignè.

 

Ul Baiaff di Scamoi, ul san i nös sgent,

l’è méss insema tirandos in ment

‘na quai aventüra, o magari besctièda

che a vün da Vosch l’è capitèda.

 

Ogni ènn, quand che ‘s vardum indré,

as rendum cünt che la roba la ghié

par fè in manera che begn o mal

a pomm impienì ‘stu piscian giurnal.

 

E inscì vam innanz cun ‘na tradizion

urmèi part du Carnavè d’un Scamon,

cun la speranza che in ogni puntèda

sem boi da fau fè ‘na bèla ghignèda.

 

Quaidün di vout l’è mia tant cuntent

da vés menziunò un grèi malament,

ma garantisum la nosa intention

da mai vés catiu, in nisüna ucasion.

 

E vés dal Baiaff un prutagunista

l’é un segn ca set boi da metas in vista,

ca set impurtant par tütt u pais,

e par mia fè sechiè i nöss vecc radis.

 

Parché in fond ul vero pericul

l’è fè sparì ‘stu piscian miracul

d’un paesin, gnè piü Cumün,

ma dove tücc as sentum quaidün.

 

E un bon mument par pudé ritruvass,

a l’é senza dübi ul dì d’Sabat Grass:

stè tücc insema, e pasè ‘n quai mument

senza trop crüzi, e cul cör cuntent!

 

Perciò cume sempru, grènc e gugnitt,

au specium in tènc, e mia pö strasitt!

Vegni fò d’chià, in piazza a scminè

chel cu pò capitè ul dì d’Carnavè!

 

E specialment, pignoff in bagütt,

vom viden tanti, cul bél o cul brütt:

parché l’è a lou ch’ai metum in man

i ciau par fè bél det tücc ul duman!

Traduzione

Era verso la fine dell’estate, di notte c’era stato un temporale con fulmini che facevano spaventare anche i nostri vecchi, quelli più in là con gli anni. Camminavo sulla strada sterrata che dalla piazza conduce al vecchio Prestino, dove il Riscti cuoceva il pane nel forno a legna con i rami di nocciolo: pane grigio, pane di segale, e la domenica qualche torta di pane secco e qualche biscotto, fatto di farina, uova e burro che in quel tempo del dopoguerra pochi contadini potevano comperare. Il cielo in quella mattina era limpido e chiaro come sempre dopo la tempesta. La terra emanava un odore piccante. Le cime delle montagne ti cascavano addosso e sui pizzi la prima spolverata di neve imbianchiva il rosso mattone delle rose delle alpi che si mescolava con il verde cupo dei pini, con il giallo dei larici e con il grigio dei sassi. In faccia al Prestino, nell’aia, la Gina col naso che gocciolava come una fontana, batteva energicamente le ultime spighe (di segale, NdT) con quella sua gonna nera e quel fazzoletto nero in testa più vecchio di lei, vecchio come le rascane lì vicine, mezzo crollate a causa del tempo che passa, il tempo che tutto cambia. Fuori dall’uscio del Prestino, una bambina poco più alta di due spanne portava una gonnellina sporca e scolorita, fino sotto alle ginocchia mezze ammaccate, i capelli neri spettinati; le pantofole son solo buchi. Dal naso colava una striscia di muco: due candelotti dalle narici fin giù verso il mento. In bocca e in mano un tozzo di pane di segale… lo teneva come l’oro per sentirne il gusto dolce con quei suoi occhi pieni di malinconia. Cos’era mai in quel tempo del dopoguerra… un tozzo di pane di segale!

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